Ornella Civardi intervista Efraim Medina Reyes
Tratto da "La Voce Nuova di
Piacenza", 11 settembre 2002
Dov’è finita tutta quell’atmosfera che ci raccontano? La tua America
Latina è vera o è un universo fittizio cucito su misura per i tuoi stati
mentali?
Se c’è qualcosa di fittizio, piuttosto, è la Colombia da cartolina
illustrata che spacciano autori come García Marquez, vecchi d’anni e di
mente. Gente che per cercare la Letteratura volta le spalle alla vita. Hanno
diffuso un mucchio di stereotipi: una volta una ragazza norvegese mi ha chiesto
come mai scopavo così male per essere un latino. Senza contare che molti, all’estero,
sono convinti che noi parliamo con le mucche. Invece solo lui ci parla, García
Marketing. L’ho chiamato così una volta, perché ha trovato la formula
perfetta del libro che vende. Anche da noi, intendiamoci, ma non certo a quelli
della mia generazione. La mia generazione vive per il 70% nelle città e ha gli
stessi problemi, gli stessi sogni, la stessa musica di chi sta in qualsiasi
altra metropoli europea o americana. Noi, in quella Colombia rurale e
folcloristica, non ci riconosciamo. Davanti alla TV, nei cinema, abbiamo
assorbito come tutti il mito americano e ci stiamo sforzando di metabolizzarlo.
Anche la tua scrittura pesca i codici dal filone del romanzo "duro"
americano?
Ho alcune passioni americane, come Capote o Bukowski, ma non mi ritrovo
nella loro scrittura, anche perché nasce in una lingua diversa e questa è una
distanza definitiva. Al massimo posso confrontarmi con la traduzione spagnola di
questi autori. E poi io sperimento, loro sono classici (e scrivono molto meglio
di me). No, penso che mi abbia segnato di più l’interiorità tormentata di
Cesare Pavese. Anche quando parlo di alcol o erba non sto ricalcando dei luoghi
letterari: in Colombia siamo 40 milioni di Bukoswki, permanentemente ubriachi, e
se usciamo con gli amici, andiamo a bere. Ho descritto il mio branco, con poche
licenze poetiche.
Quel non so che di adolescenziale che nel tuo libro ha stregato i ragazzini
è un motivo autobiografico?
Per certi versi sì. Ho voluto ironizzare su un periodo trascorso della mia
vita, su un ridicolo modello di macho americano che all’epoca avevo in testa.
Il libro che ho scritto dopo,
Tecniche di masturbazione tra Batman e Robin,
che in Italia uscirà il prossimo anno, è già più adulto; lì c’è un
personaggio che guarda Rep, il protagonista del primo libro, con occhi già
distaccati.
Forse di adolescenziale ha soprattutto quella carica di rabbia, di ribellione
mal gestita che fa muovere i personaggi con una vitalità cieca, qualche volta
autolesionista. Ma qual è il mondo che si sforzano di respingere, anche
facendosi male?
Se nasci in un paese sudamericano, da subito sei condannato a guardare una
TV dove la gente perfetta è bianca, ricca e abita lontano. Per un po’ di anni
sei sicuro che da grande diventerai così anche tu, poi di colpo apri gli occhi
e ti vedi davanti una vita da fallito, e ti disprezzi per non essere come la TV
ti aveva chiesto di essere. Loro hanno case bellissime, macchine bellissime,
soprattutto donne bellissime, mentre tu sai per certo che non potrai mai scopare
con Sharon Stone e che la tua squadra di basket non vincerà mai contro una
squadra americana. O ti uccidi, o impari a riderti addosso. Perché chi ha perso
e non ride diventa un fallito. Per questo con alcuni amici ho fondato la ditta
"Fallimento srl", che aveva per slogan: "Dove c’è bisogno di
un fiasco, noi ci saremo". Non mi nascondo niente. Non dico, come certi
altri perdenti, che sto bene così. Io volevo essere ricco, bello come Brad Pitt,
e scopare con Sharon Stone, c’è poco da fare.
Il tuo libro, al di là del caos apparente, sembra strutturato, o
destrutturato, con cura…
Ci sono casi in cui la semplicità e l’immediatezza sono il frutto di una
lunga elaborazione. Io ho cercato una scrittura piana e d’impatto perché
volevo parlare ai più giovani, e a tanti di loro. È troppo facile fare il
Philip Glass, costruire una musica ostica e incomprensibile per dare l’illusione,
a chi l’ascolta, di essere un duro, un intellettuale. Il prossimo libro sarà
altrettanto frammentato, ma in modo ancora diverso. Ho costruito una storia in
cui si possa entrare da molti varchi, percorribile secondo molte direzioni e in
cui giochino svariati generi, dal comico al cinematografico, allo scientifico,
al pubblicitario. Contiene per esempio un "Manuale di seduzione in 9
semplici lezioni" e un vademecum, intitolato "Apprendistato con la
foca", per trasformarsi in pochi minuti da perfetto cretino a uomo di
grande fascino.
E l’Italia, come si colloca tra le tue molte idiosincrasie?
Beh, mi sono imbattuto anche in gente ripugnante come Bruno Vespa e Vittorio
Sgarbi, ma in generale gli italiani mi piacciono, mi piace anche quel loro
carattere freddo, così diverso dal nostro. Solo, mi lascia perplesso il vostro
rapporto col calcio. Per voi il calcio è un po’ come la coca per gli
americani. Anche a me piace, ma sono abituato a parlarne per divertimento, qui
la gente ne parla come se fosse un argomento intellettuale. In ogni modo, la
cosa più bella che mi sia capitata in Italia è stata conoscere Paolo
Villaggio. Una mattina, all’alba delle 8, sono uscito a cercare un bar per
bere qualcosa di forte. A quell’ora, in giro per Venezia c’era solo lui,
anche lui a caccia d’alcol: è stata amicizia folgorante.
Le cose che ami definitivamente?
I sinceri, il rock classico che ti va dritto al cuore, le donne,
terribilmente. E questo bambino che ha ascoltato tutta l’intervista in
silenzio.